Mostra a cura di Paolo Bolpagni
Comunicato-stampa
“Renoir: l’alba di un nuovo classicismo, in Palazzo Roverella dal 25 febbraio al 25 giugno, è una mostra originale, spettacolare e di nuova impostazione. A promuoverla è la Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, il contributo di Intesa Sanpaolo, e produzione diSilvana Editoriale. È il frutto di un enorme sforzo di ricerca compiuto dal curatore Paolo Bolpagni, il cui saggio, nel catalogo, si accompagna a quelli di Francesca Castellani, Giuseppe Di Natale, Francesco De Carolis, Michele Amedei e Francesco Parisi.
In mostra ben quarantasette opere di Renoir, provenienti da musei francesi, austriaci, svizzeri, italiani, tedeschi, danesi, olandesi e del Principato di Monaco (anche un capolavoro di proprietà personale del principe Alberto di Monaco, la “Baigneuse s’arrangeant les cheveux” del 1890 circa).
Accanto alle opere di Renoir, sono esposti i capolavori dei grandi maestri dell’arte del passato cui egli s’ispirò nella fase matura della sua carriera: Vittore Carpaccio, Tiziano, Romanino, Peter Paul Rubens, Giambattista Tiepolo,Jean-Auguste-Dominique Ingres, ma anche di suoi contemporanei come lo scultore Aristide Maillol e gli “italiens de Paris” Giovanni Boldini, Giuseppe De Nittis, Federico Zandomeneghi e Medardo Rosso. Inoltre, a evidenziare possibili e spesso insospettabili confronti con artisti italiani di una o due generazioni successive, i dipinti di Armando Spadini, che Giorgio de Chirico definì «un Renoir dell’Italia», dello stesso de Chirico, di Filippo de Pisis, Arturo Tosi, Carlo Carrà, Enrico Paulucci, Bruno Saetti, e le sculture di Marino Marini, Arturo Martini, Antonietta Raphaël Mafai ed Eros Pellini. In totale ottantatré opere, cui si aggiunge l’edizione storica della traduzione francese del “Libro dell’Arte” di Cennino Cennini, con la prefazione di Renoir, unico suo testo pubblicato in vita.
Le ultime fasi della preparazione della mostra hanno anche conosciuto un colpo di scena da cardiopalma: il 9 febbraio, infatti, uno dei musei prestatori, che aveva concesso il bronzo della “Venus Victrix” di Renoir del 1916, ha dovuto annunciare a malincuore di non poter più concedere l’opera, essendo emerso il sospetto di una sua provenienza problematica durante il periodo dell’occupazione nazista nel corso della Seconda guerra mondiale. Il curatore e gli organizzatori non si sono però persi d’animo, e si è così riusciti ottenere, a tempi da primato, dalla Kunsthalle di Amburgo una scultura forse ancora più importante, ovvero la “Piccola Venere in piedi” del 1913, che della “Venus Victrix” costituisce il fondamentale precedente, e uno dei primi casi in cui Renoir si misurò con la scultura, aiutato dall’assistente Richard Guino, allievo di Maillol.
E nell’ultima sala c’è un’autentica emozionante chicca, anche per i cinefili: come noto, il secondo figlio di Pierre-Auguste Renoir fu Jean Renoir, uno dei più grandi registi della storia. In un suo film del 1936, il raro “Una gita in campagna”, rese omaggio al padre quasi ricreando, nelle eleganti inquadrature, le scene e le atmosfere dei suoi dipinti. In mostra sarà possibile vedere, in versione restaurata, alcuni spezzoni significativi della versione originale del film, con sottotitoli in italiano.
Pierre-Auguste Renoir (1841-1919) è stato uno dei massimi esponenti dell’Impressionismo. Questa fase della sua produzione è la più nota al grande pubblico, ma fu caratterizzata da una certa disparità di vedute con Monet, Pissarro e Degas. Già verso la fine degli anni Settanta Renoir era tormentato dall’insoddisfazione, dal bisogno di trovare vie alternative. Il viaggio compiuto in Italia nel 1881-1882 fu importante nel far evolvere la sua arte: da qui, dalla luce di Venezia e del Mediterraneo, dalla lezione dei grandi maestri del passato (Carpaccio, Raffaello, Tiziano, Rubens, Tiepolo, Ingres) e dalle riflessioni sulla tecnica pittorica nacquero i germi di una sorta di nuova classicità. Renoir arrivò così ad anticipare via via non pochi aspetti del “ritorno all’ordine” che sarebbe esploso verso la fine degli anni Dieci del Novecento in reazione alle avanguardie. Insomma, la fase matura e poi conclusiva della sua carriera, su cui s’incentra questa mostra, non fu affatto un periodo di decadenza, ma anzi si rivela quasi, con le opere pacate, sontuose e spesso monumentali che la connotano, un presagio di sviluppi successivi dell’arte. L’intento è quindi di porre in risalto l’originalità di una produzione che non fu per nulla attardata, ma che costituì uno dei primi casi di quella “moderna classicità” che sarebbe stata perseguita da molti pittori e scultori degli anni Dieci, Venti e Trenta, in maniera speciale in Italia.
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